Il burnout dell’infermiere: cause, sintomi e strategie per affrontare questa sindrome

4 luglio 2022 Salute e prevenzione
burnout infermiere

Con il termine “burnout” si intende l’esaurimento psico-fisico ed emotivo che colpisce alcune professioni di aiuto, come quelle sanitarie e assistenziali, ad esempio l’infermiere, l’OSS, il medico e l’assistente sociale, in ragione della natura delicata della prestazione svolta.

Chi per lavoro si occupa di persone che soffrono (malati, anziani, disabili), è infatti sottoposto a un costante logorio emotivo, che se trascurato può portare a stress, ansia, apatia, depressione e ad altre problematiche fisiche e psichiche. 

Questa condizione, riconosciuta dall’OMS come “Sindrome del burnout”, può pertanto determinare severe conseguenze nella vita del professionista, con ripercussioni nella sfera lavorativa e personale. Ma se diagnosticato per tempo, e intervenendo con le opportune strategie, il problema può essere risolto e superato. 

In questo articolo abbiamo deciso di parlare di burnout nell’infermiere intervistando la dottoressa Laura Gestieri, psicologa e psicoterapeuta, per capire come si manifesta, come affrontarlo e che approccio adottare per prevenirlo.

Innanzitutto, cosa si intende esattamente con il termine “burnout”? 

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) considera il burnout come un fenomeno lavorativo, “una sindrome ritenuta conseguenza di stress cronico sul posto di lavoro non gestito con successo”. L’operatore sanitario, dopo un periodo di lavoro intenso svolto con entusiasmo e impegno si “brucia”, non ha più nulla da offrire dal punto di vista psicologico e rischia di svolgere il proprio lavoro con minore efficacia ed efficienza. 

Il burnout è l’esito di un processo graduale che prevede quattro fasi

  • l’entusiasmo idealistico, motivato da forti aspirazioni professionali, che spinge il soggetto a scegliere un lavoro di tipo assistenziale; 
  • la stagnazione, in cui l’operatore è soggetto a un carico di lavoro eccessivo, sperimenta uno squilibrio tra le richieste provenienti dall’ambiente e le risorse personali e avverte di conseguenza un calo dell’entusiasmo e del senso di gratificazione verso la professione; 
  • la frustrazione, nella quale il soggetto percepisce sentimenti di inutilità, inadeguatezza e frustrazione, andando incontro a esaurimento emotivo; 
  • l’apatia, in cui l’interesse e la passione nei confronti del lavoro si spengono, l’indifferenza prende il posto dell’empatia e l’operatore inizia a lavorare in maniera rigida, privilegiando la routine, i compiti e le mansioni svuotati della loro componente affettiva e relazionale. 

Christina Maslach, psicologa sociale americana nota per le sue ricerche sul tema, parla del burnout come di una sindrome costituita da tre componenti

  • l’esaurimento emotivo, in cui l’operatore sente mancare le energie per manifestare vicinanza, ascolto ed empatia nei confronti delle persone di cui si occupa, sentendosi frustrato e impotente nella relazione di cura;
  • la depersonalizzazione, per cui il professionista, spesso inconsapevolmente, si comporta con distacco e ostilità nella relazione di aiuto che viene vissuta con freddezza, fastidio, irritazione fino a forme di derisione e di cinismo nei confronti della sofferenza e dei bisogni altrui; 
  • la ridotta realizzazione personale, determinata da un’esperienza lavorativa poco gratificante. 

La professione di infermiere è fra quelle più soggette a questa problematica, insieme ad altre figure che operano in ambito assistenziale, sanitario e sociale. Perché gli infermieri sono tra le professioni più a rischio? Quali sono le cause principali che li pongono in questa condizione? 

Lavorare a contatto con la malattia e la sofferenza delle persone comporta rapporti interpersonali carichi emotivamente e caratterizzati da ansia, tensione e ostilità; l’infermiere si pone come persona in grado di rispondere ai bisogni dell’altro servendosi sia di conoscenze tecniche sia di competenze relazionali, ma questo comporta una richiesta emotiva intensa. 

Può infatti insorgere un contrasto tra le aspettative dell’utente, che attribuisce all’infermiere una quantità di risorse stabili e costanti, senza tenere conto dei limiti fisiologici e della impossibilità di lavorare in modo sempre ottimale nelle professioni d’aiuto. 

Un altro elemento che pone l’infermiere a rischio di burnout è il cosiddetto “contagio emotivo”, che subentra nel momento in cui l’operatore sperimenta un eccessivo coinvolgimento con la sofferenza del paziente, in una condizione di confusione tra sé e l’altro. Per difendersi da questa sofferenza l’infermiere potrebbe reagire distaccandosi emotivamente senza riuscire a stabilire una relazione empatica adattiva con il paziente. Il livello stesso di gravità del paziente assistito spesso carica la relazione di aiuto di vissuti come angoscia, depressione, senso di impotenza, che tendono a ostacolarla, a influenzare i comportamenti e a paralizzare le prospettive. 

Anche i familiari dei pazienti assistiti possono trasferire sull’infermiere i propri bisogni di aiuto e di vicinanza rendendolo oggetto di richieste più o meno esplicite, che implicano una risposta sul piano comportamentale e relazionale. Tutti questi elementi, che caratterizzano le professioni sanitarie di aiuto, possono favorire sul lungo periodo l’insorgere del burnout.

Focalizzandoci sulla professione di infermiere, in genere come tende a manifestarsi il burnout? Quali sono i primi sintomi e campanelli d’allarme a cui la persona dovrebbe far caso? 

L’infermiere in burnout inizia a manifestare sintomi riconoscibili sia sul piano fisico che a livello psicologico. Del primo gruppo fanno parte:

  • stanchezza 
  • irritabilità
  • cefalea
  • difficoltà di riposo notturno 
  • diarrea 
  • nausea o inappetenza 
  • vertigini 
  • dolori al petto 
  • crisi di affanno

Contestualmente, lo stato psicologico dell’infermiere può essere caratterizzato da uno stato di:

  • costante tensione
  • tendenza alla irritabilità
  • cinismo
  • depersonalizzazione
  • frustrazione;
  • senso di fallimento
  • apatia;
  • demoralizzazione;
  • ridotto interesse verso il proprio lavoro; 
  • reazioni negative verso familiari e colleghi; 
  • distacco emotivo

Anche sul piano comportamentale si osservano dei cambiamenti, come una forte resistenza ad andare a lavoro quotidianamente, difficoltà a scherzare sul lavoro, tabagismo, eccessivo uso di farmaci, alcol o sostanze psicoattive

L’esaurimento emotivo, legato alla percezione di uno squilibrio tra richieste eccessive e risorse disponibili, associato alla sensazione di aver oltrepassato i propri limiti e all’incapacità di recuperare le energie fisiche ed emotive, rimane la caratteristica centrale del burnout e la manifestazione più ovvia di questa sindrome.

Si tratta di un problema che tende a colpire di più infermieri che si sono affacciati da poco tempo alla professione oppure può riguardare anche i professionisti più esperti? 

Alcuni esperti del settore sostengono che l'età avanzata, associata a maggiore accumulo di stanchezza per il lavoro e di esperienze lavorative stressanti, costituisca uno dei principali fattori di rischio di burnout; altri, invece, ritengono che i sintomi siano più frequenti nei giovani, che vedono le proprie aspettative deluse a causa della rigidezza delle organizzazioni lavorative. 

Negli ultimi tempi si assiste a un abbassamento dell’età media in cui tende a insorgere il burnout, che sempre più frequentemente si  manifesta agli inizi della carriera; questo può essere letto come il risultato di una minore capacità da parte dell’infermiere di gestire la frustrazione e il disagio legati a condizioni lavorative che molto si discostano da un’ideale del lavoro e dalle attese di realizzazione personale che si è creato negli anni di formazione.

Ci sono personalità più soggette di altre al rischio di burnout o condizioni specifiche che espongono maggiormente a questo problema? 

Fattori di natura individuale, interpersonale/relazionale, gruppale e organizzativa possono accrescere o prevenire il rischio di burnout. Si possono individuare specifici tratti di personalità che predispongono a una maggiore vulnerabilità nei confronti della sindrome, mi riferisco:

  • al bisogno eccessivo di controllo e all’idealizzazione del Sé professionale (l’infermiere si sente indispensabile e non permette ad altri colleghi di occuparsi del paziente perché nessuno potrebbe svolgere il lavoro come lui); 
  • alla tendenza all’eccessivo coinvolgimento e all’incapacità di gestire il tempo (l’infermiere lavora oltre il tempo necessario e porta il lavoro a casa senza dedicare spazio alla vita sociale); 
  • alla scarsa fiducia in se stessi, a tratti ansiosi e di sottomissione, alla tendenza all’intolleranza e impazienza

Altri fattori predisponenti possono essere rintracciati a livello relazionale, come conflitti o competizione tra colleghi, a livello della struttura organizzativa (ore di straordinario, scarsa retribuzione, monotonia lavorativa, sovraccarico, mancanza di formazione specifica) e a livello socio-culturale (aumento della domanda senza un proporzionale aumento delle risorse, sfiducia da parte degli utenti).

Come e da chi viene diagnosticato il burnout?  

La persona che manifesta sintomi riconducibili alla sindrome del burnout deve rivolgersi al proprio medico curante; l'OMS stabilisce che prima di diagnosticare un burnout è necessario escludere altre condizioni che presentano sintomi simili come il disturbo dell'adattamento, l'ansia o disordini legati a paure o la depressione. Inoltre, il burnout si può riferire solo a un contesto lavorativo. 

Una volta che il medico sospetta che si tratti di burnout, la diagnosi deve essere eseguita da un professionista competente in materia come il medico del lavoro, lo psichiatra o lo psicologo. Quest’ultimo valuterà anche attraverso l’utilizzo di questionari specifici (Maslach Burnout Inventory, Test Breve di Potter) se di fatto la sintomatologia presentata dal soggetto riflette le caratteristiche individuate dall’OMS.

Come dovrebbe comportarsi e a chi dovrebbe rivolgersi un infermiere che avverte sintomi riconducibili al burnout? 

Una volta diagnosticato il burnout, l’infermiere deve rivolgersi al proprio medico curante che valuterà l’opportunità di compilare un certificato di assenza da lavoro.

Non trattandosi di una malattia riconosciuta, il burnout non dà automaticamente diritto a giorni di malattia, a meno che non porti a conseguenze rilevanti come lo sviluppo di un disturbo depressivo maggiore oppure di un esaurimento nervoso.

Una volta diagnosticato, come si affronta il problema? Qual è il percorso che in genere viene suggerito a un infermiere che si trova in questa condizione? 

La sindrome da burnout può essere trattata con diverse strategie, quali: 

  • la psicoterapia, in particolare quella di tipo cognitivo comportamentale;
  • la modifica delle abitudini lavorative;
  • la messa in atto di misure utili a contrastare lo stress nella quotidianità. 

Lo psicoterapeuta aiuterà l’infermiere ad aumentare la consapevolezza di sé, dei propri pensieri, emozioni e comportamenti e ad acquisire tecniche di rilassamento, di gestione dello stress e di sviluppo di abilità sociali

Non bisogna però dimenticare che il burnout è un fenomeno derivante dall’interazione persona-lavoro, pertanto la ricerca di soluzioni al problema non va riferita solo all’individuo, ma anche al luogo di lavoro stesso.

Parlando di prevenzione, invece, quali sono i suggerimenti che darebbe a un infermiere per ridurre il rischio? Ci sono buone abitudini/comportamenti che aiutano a evitare il burnout?   

La prima forma di cura della sindrome da burnout è la prevenzione. È importante non trascurare i sintomi di burnout quando iniziano a comparire in forma leggera, sentendosi liberi di parlarne con il medico o con uno psicologo per capire come ridimensionare il peso della vita professionale all’interno della vita privata. 

La prevenzione del burnout riguarda sia il contesto lavorativo che i comportamenti dell’operatore socio-sanitario: aziende e organizzazioni dovrebbero prevedere l'inserimento di una figura di sostegno nel proprio organico, l'istituzione di corsi sul tema del burnout e l’uso di apposite metodologie di recruitment del personale per individuare i soggetti a rischio. 

Sul piano individuale occorre invece coltivare tutti quei fattori protettivi che vanno a creare una sorta di “armatura” che aiuta l’infermiere a proteggersi dal burnout; mi riferisco alla realizzazione personale, in quanto sentirsi soddisfatti e gratificati come individui garantisce la spinta motivazionale sufficiente per far perseguire gli scopi lavorativi prefissati. 

Anche il supporto sociale percepito nell’ambiente di lavoro costituisce per l’infermiere un aiuto di natura sia pratica che emotiva, come pure la possibilità di accedere a corsi di formazione e di aggiornamento professionale, che forniscono competenze tecniche e relazionali indispensabili alla percezione della propria efficacia professionale.

Dopo aver superato il problema, esiste un rischio di ricadute? Se sì, come fare per evitare di ricadere nel burnout e vivere la professione nel modo più sereno possibile? 

Purtroppo esiste un rischio di ricaduta nel momento in cui l’infermiere che ha superato il problema si trova nuovamente a lavorare in una condizione cronica di squilibrio tra risorse personali e richieste del contesto. Per vivere la professione nel modo più sereno possibile potrà comunque fare affidamento su quanto ha appreso rispetto all’individuazione degli elementi stressanti sul luogo di lavoro e su come affrontarli, sul riconoscimento dei primi sintomi, sulla consapevolezza di poter consultare e accettare l’aiuto di uno specialista, e sul rinforzo dei fattori protettivi precedentemente indicati. 

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