Diabete di tipo 1 o di tipo 2? Una classificazione che tutti conosciamo, basata su età e cause della patologia.
Parliamo di tipo 1 se si manifesta nel periodo infantile e adolescenziale ed è causato dall’attacco che gli autoanticorpi hanno nei confronti delle cellule che producono insulina, fondamentale per la regolazione degli zuccheri nel sangue. Quello di tipo 2, invece, è la forma più frequente ed è propria dell’età adulta, dipendente da diversi fattori tra cui età, obesità e certe malattie scatenanti.
Secondo alcuni ricercatori, però, questa suddivisione non basterebbe più. Lo affermano su The Lancet: Diabetes & Endrocrinology, supportati dall’analisi dei dati di oltre 15.000 individui affetti da diabete. Lo studio, prendendo in esame indice di massa corporea, età di insorgenza e grado di resistenza all’insulina, dimostrerebbe quanto l’attuale modello “a 2” sia una semplificazione di quadri clinici più complessi o ibridi.
Il diabete autoimmune corrisponde al tipo 1 sia per età di comparsa sia per caratteristiche. Il diabete da deficit di insulina, invece, si differenzia per il fatto che gli anticorpi non giocano nessun ruolo all’interno del processo che vede l’insulina azzerarsi. Queste prime due forme sono due varianti normalmente “incasellate” sotto il diabete di tipo 1.
Se invece prendiamo in esame cause e sintomatologia del secondo tipo, sono tre le nuove forme identificate.
Di tipo 3, il diabete da resistenza all’insulina, che è principalmente legato al fattore obesità e può rivalersi su fegato e reni. In corrispondenza delle ultime due tipologie troviamo il diabete legato all’obesità, ma non insulino-resistente, e il diabete legato all’età, soprattutto nelle persone di terza età.
Solo un complicare la vita a medici e pazienti?
Pare di no perché, come scritto dagli autori dello studio, “suddividere in modo più preciso i pazienti potrebbe modificare le cure, aiutando a renderle più su misura”. E dunque, sicure ed efficaci.
Quello del diabete resta comunque un quadro clinico complesso, anche in presenza di questa “raffinazione” diagnostica. Tant’è che cinque sotto-categorie potrebbero non bastare. Come nel caso della premier britannica Theresa May, che ne ha contratto una forma autoimmune a 56 anni, ben dopo l’infanzia. E qualcuno ha pure messo sotto esame l’Alzheimer, suggerendo che si possa inserire nel contesto del diabete di tipo 3. Infatti, come fa notare il geriatra Paolisso Giuseppe dell’Università di Napoli, “il legame fra l'eccesso di carboidrati e i deficit cognitivi passa dall'alterazione della sensibilità all'insulina, che nel cervello agisce come un neuromodulatore. In chi ha un alterato metabolismo degli zuccheri la sensibilità all'insulina a livello cerebrale diminuisce e ciò facilita la deposizione di placche di beta-amiloide, sostanza di scarto del metabolismo cerebrale correlata all'Alzheimer. Non a caso l'uso di farmaci antidiabetici riduce lievi deficit cognitivi nei pazienti che li manifestano”.
Aspettiamo dunque ulteriori conferme in merito a questa possibile nuova classificazione, per capire se e come sarà adottata dalla comunità medico-scientifica, con le conseguenti ricadute terapeutiche.